Ecco un racconto un po’ apocalittico, che si inserisce bene in questo clima di Coronavirus. In realtà l’ho scritto nel 2013, spaventata da eventi violenti, naturali e non, in varie zone del mondo. Credo che i nostri racconti rispecchino molto bene ciò che siamo e proviamo, divenendo una valvola di sfogo delle nostre emozioni. In questo caso, delle mie paure.
«Basta! È l’ultima volta che ti seguo! Scommetto che non sai dove siamo e come si fa a tornare indietro», sentenziò Elio. «Non riesco più a respirare!»
«Non mi dire: inizi a soffrire di claustrofobia?» lo apostrofò Attilio.
«No. Inizio a soffrire le tue avventurose esplorazioni!» precisò Elio ansimante. «Non ne posso più di strisciare come un verme nelle budella umide della terra con i tuoi piedi in faccia!»
«Allora passa davanti. Guida tu!»
«Spiritoso… E su che corsia ti sorpasso?»
«Aspetta! Fermati!» lo interruppe Attilio, bloccandosi di colpo, mentre Elio gli urtava gli scarponi con il caschetto. «Sento una corrente d’aria.»
«Miracolo! Forse siamo salvi!»
«E smettila di fare il sarcastico!» lo ammonì Attilio, riprendendo il percorso. Strisciò ancora per pochi metri, quando la sua torcia frontale illuminò qualcosa in lontananza.
«Mio Dio!» esclamò sbucando finalmente da quel cunicolo e piantandosi davanti all’uscita.
«E spostati… Fammi uscire da qui!» disse Elio battendo le mani sulle gambe dell’amico.
Come un automa, Attilio si scostò dalla sua posizione e le due frontali illuminarono ancor meglio l’ampia cavità.
«Oh mio Dio!» fece eco il secondo arrivato. «Dove diavolo siamo finiti?»
I loro coni di luce squarciavano il buio disordinatamente, alla ricerca di una risposta.
Attilio rimaneva assorto in un tetro silenzio. Ad un tratto si risolse e cominciò a scendere verso la base della caverna, arrancando su una stretta cengia.
«Forse è meglio tornare indietro», propose Elio. La voce gli tremava.
Attilio continuava ad avanzare silenzioso, nella luce traballante della sua frontale.
«Scendi, dai!» lo invitò Attilio quando raggiunse il fondo. «Non vuoi vedere cosa c’è qui?» La sua voce tuonò quasi rassicurante.
«Ho già visto abbastanza» rispose. «Torna su e andiamo via. Non mi piace questo posto. Non possiamo stare qui.» Ma vedendo che l’amico era deciso a rimanere ancora un poco, scese anche lui. «Chissà di chi è questo posto», mormorò al vuoto. «Senti che odore dolciastro! Mi sembra di tornare indietro nel tempo», continuò. In breve si trovò di fianco al compagno.
«Guarda qui, Elio. Ti ricordi? Lo abbiamo fatto anche noi a scuola», disse Attilio sorridendo.
«Sì. Avevamo distillato la grappa. Ma poi non abbiamo avuto il coraggio di berla!» ricordò Elio, ritrovando anche lui il sorriso. «E questo cos’è?»
«È un essiccatore» rispose Attilio. «Non ti ricordi più niente di tutto quello che hai studiato per diventare perito chimico?»
«Sono secoli che non entro in un laboratorio di chimica», si giustificò Elio.
«Ehi! Ma qui ci sono anche strumenti sofisticati. Guarda: questo deve essere uno spettrometro di massa e questo un gascromatografo.»
«È vero! Ma dove prendono la corrente per funzionare?»
«Accidenti! Guarda qui!» Attilio fissò lo sguardo su una beuta chiusa ermeticamente, riportante una scritta che non lasciava dubbi: «Ununoctio».
«Sarebbe?»
«Un-un-octio», ripeté con espressione attonita, guardando Elio negli occhi. «È l’elemento chimico con centodiciotto protoni. Quello più pesante. L’ultimo della tavola periodica.» Attilio tornò a scrutare la beuta che sembrava vuota. «È un gas, ovviamente sintetico. Ho letto che alcuni scienziati erano riusciti a produrlo ma poi hanno smentito la scoperta», spiegò arretrando. «Se è vero che è lì dentro, meglio stare alla larga perché è radioattivo.»
Continuarono a curiosare per il laboratorio finché Elio attirò l’attenzione di Attilio: «Vieni un po’ qui, genio della chimica… Avevi anche tu un quaderno così ordinato?» Lo presero in mano. La luce delle torce si ridusse a un breve tronco di cono. Sfogliarono alcune pagine e lessero con attenzione il contenuto di quelle che erano state scritte per ultime. L’odore dolciastro e nauseante dei composti esterificati inquinava l’aria in modo insopportabile. Il silenzio iniziò a rimbombare sempre più dei battiti del loro cuore.
«Hai ragione, Elio. È meglio andarsene. E in fretta.» Appoggiarono distrattamente il quaderno sul banco e quasi fecero cadere una bottiglia contenente acido cianidrico.
Come richiamata da quel gesto, un’illuminazione artificiale inondò la caverna.
«Chi vuole andarsene proprio ora che sono arrivato io?» tuonò una voce beffarda.
Dall’oscurità di un anfratto uscì la massa di un vecchio: una lunga barba grigia e ispida gli ricadeva sul petto e i sopraccigli disegnavano due accenti pelosi, sollevati verso i lati della fronte. Le iridi bluastre come la luce emessa dall’attinio, lo sguardo gelido e compresso come l’elio solido.
«Benvenuti! Era tanto, troppo tempo che non avevo visite», sogghignò il vecchio, sfregandosi le mani come se avesse appena concluso un buon affare. La sua falsa cordialità solidificava i due speleologi che apparivano come cristalli trasparenti alla mente dell’ambiguo scienziato.
«Vedo che vi interessate alle reazioni chimiche», proseguì l’equivoca figura, posando il cipiglio sul quaderno.
«No, no» intervenne Elio agitando le mani, «noi non capiamo niente di chimica.»
«Davvero?» osservò il vecchio, incredulo e canzonatorio. «Allora vi spiego io.» Improvvisandosi insegnante, prese tra le mani il quaderno: «Vedete qui? Questa reazione fa accadere i terremoti, mentre questa genera un uragano. Questa, invece, agisce sulle singole persone, provocando malattie e… altro, a seconda della purezza dei reagenti». Il vecchio alzò lo sguardo carico di rimprovero per incrociare quello pietrificato dei suoi alunni: «Non si tratta di stregoneria. Non faccio il malocchio, io. Quelle sono baggianate per sciocchi creduloni» brontolò. «Vi siete mai chiesti quale conseguenza possa avere il battito d’ali di una farfalla? Ecco, io uso piccole energie di cui nessuno si accorge e le governo, le incanalo per far avvenire qualcosa che sembra non avere spiegazione o che viene interpretata dando la colpa a mille altri motivi», concluse alzando la mano come per scacciare una mosca.
«Ma… perché fa questo?» gli chiese timidamente Attilio. Elio sprofondò il collo tra le spalle e chinò il capo, puntando un’occhiataccia verso l’amico curioso.
«Ed ora, ecco a voi il mio capolavoro.» Ignorando la domanda di Attilio, il pazzo indicò un’apparecchiatura che sembrava un compressore: «L’ununoctio compresso viene fatto passare attraverso questa valvola che ne abbassa la pressione, così si raffredda e condensa e poi gocciola nella terra e fa quello che deve fare…» Un guizzo di luce acida lampeggiò nei suoi occhi, simile al riflesso della luna in quelli di una iena.
«La tortura della goccia cinese», bisbigliò Attilio.
Il folle proseguì: «L’ho iniziato ieri e terminerà prima dell’alba. È un processo lento, è vero. Potrei aggiungere un catalizzatore, ma il risultato non sarebbe altrettanto buono. In certi casi bisogna portare pazienza…»
La sinistra mente sbirciò il pensiero di Attilio che venne sospinto lontano da ignobili mani: «È una reazione irreversibile. E guai a interromperla! Sarebbe una catastrofe interplanetaria», precisò l’artefice del processo.
«Bene. La mia lezione è conclusa. Adesso ho altro da fare. Vi accompagno all’uscita.»
Una paretina rocciosa di circa due metri quadrati scivolò di lato, liberando i due uomini dall’incubo.
«Arrivederci, signori!» li congedò con una frettolosa voce ironica.
La sera era già calata. La notte li attendeva.
«Ma è pazzesco! Siamo al parcheggio dove abbiamo lasciato la macchina stamattina!» esclamò Elio.
«Già», si limitò a osservare Attilio. Aprì la cerniera lampo di una tasca ed estrasse la chiave dell’automobile. «Sali, sbrigati.»
L’auto cominciò la discesa della montagna, serpeggiando tra i tornanti.
«Ci ha lasciati andare. Anzi, ci ha buttati fuori: che maleducato!», commentò Elio. Poi, cambiando tono: «Ho avuto paura. Pensavo che ci avrebbe uccisi. Tu no?»
«Non lo so.»
«Ma tu credi che sia vero quello che ci ha detto? La reazione con l’unun…coso… Questa poi… figuriamoci», tentò di sdrammatizzare Elio. «Secondo me ci ha solo presi in giro. Altrimenti, perché ci avrebbe lasciati andare?»
«No, purtroppo non ci ha presi in giro. Tra quelle reazioni c’era la mia malattia: come poteva sapere che ho avuto proprio quella dannata febbre?»
«Be’… sì… è raro che qui ci si ammali di malaria.»
Il suo segreto era al sicuro. Prese un decigrammo di attinio, minuscolo come un granello di sabbia, e lo introdusse in una provetta. La chiuse con un tappo forato di gomma dal quale sbucava una cannuccia. Attraverso questa insufflò dell’elio e sigillò il tappo della provetta. Infine, mise tutto nel buio di un forno e cominciò a scaldare. La luce blu radioattiva dell’attinio illuminò per qualche istante l’oscurità, finché il rumore ovattato di una modesta esplosione infranse il silenzio del laboratorio.
Attilio si apprestava ad affrontare il breve rettilineo tra due tornanti. Una falena si librò in volo.
All’improvviso sentì un lacerante dolore al petto e al braccio sinistro. L’auto, fuori controllo, proseguì rettilinea sul tornante; le grida disperate di Elio, il volo nella scarpata, lo schianto, l’esplosione. Il crepitio delle fiamme nella radura.
Alcune gocce, stillate dal cielo, fecondarono la terra, macchiandola di lacrime fluorescenti alla bieca luce della luna. Una zanzara si posò sopra una di esse e depose le sue uova.