Estate 2016. Il mio viaggio in Giordania.
Divertente, intenso. Divertente perché eravamo un bel gruppo affiatato: cinque donne e undici uomini; intenso, perché… adesso racconto.
Dopo una notte trascorsa in volo e all’aeroporto di Istanbul, arriviamo ad Amman. Il pulmino noleggiato per il nostro gruppo ci porta a fare colazione in un fatiscente albergo (dove, ahimè, trascorreremo la notte), ma con vista sulle gradinate dell’antico teatro.
Le colazioni giordane sono ricche, dolci e salate. Non mancano mai cetrioli, pomodori, uova, olive, formaggio, hummus (crema di ceci), falafel (polpettine di ceci), khobz, un pane non lievitato, tipo piadina ma che si può aprire come una tasca, e altri cibi strani. Segue l’incontro con la nostra guida, e poi partenza per Jerash, a nord di Amman, una meravigliosa città romana, tra le cui rovine ci siamo aggirati per quasi tre ore sotto il sole infernale del mezzogiorno. Poi il castello crociato di Ajloun (la j si legge circa come gs). Questo è senza ombra di dubbio il giorno in cui ho sofferto di più il caldo. Quindi torniamo ad Amman che è una città molto bella, ma solo nel centro, pulita, con palazzi e grattacieli moderni, ma appena esci dal nucleo regna il degrado. Gli edifici nuovi sono, per legge, tutti costruiti con la pietra locale, calcarea e di un morbido color avorio, molto elegante, che si intona perfettamente con il paesaggio. Infine visitiamo la Cittadella di Amman. Ci godiamo il tramonto dall’alto di questo sito archeologico. Le luci giallognole della città cominciano ad accendersi sui colli tutti attorno a quello su cui ci troviamo. Le moschee, accanto alle chiese, si illuminano di luci verdi. La bandiera giordana sventola fiera e distesa sull’alto del colle, dominando la città. Il canto di preghiera del muezzin aleggia nell’aria e completa la suggestione del tramonto. È un momento perfetto (non sarà così gradito il canto del muezzin alle quattro e mezza di ogni mattino!)
La nostra guida, di nome Zu (diminutivo del nome arabo Zuhair), è un uomo di cinquantacinque anni, giordano ma dall’aspetto europeo, che ha studiato e vissuto per trentatre anni in Italia. Ci racconta molte cose interessanti sul suo Paese, cose che da soli non avremmo mai conosciuto. Spesso ci incita a proseguire il nostro cammino con un yalla, yalla, che significa “andiamo, andiamo”. Ceniamo in un bellissimo ristorante tipico, indicatoci da Zu. Sarà così per tutto il viaggio. Zu ci comprerà biscotti, frutta, panini per il pranzo al sacco… insomma, ci vuole viziare. Ma lui conosce tutti i posti e probabilmente è parente di tutti i proprietari dei negozi e ristoranti dove ci porta. I giordani, come ci ha spiegato, hanno grandi famiglie e sono tutti imparentati tra di loro.
La Giordania è un paese pacifico, ha una stabile monarchia che garantisce tranquillità, polizia in giro ovunque e tanta cordialità con i turisti. Il nostro gruppo viene affiancato da un giovane poliziotto, proprio per far capire che i turisti sono i benvenuti (purtroppo la Giordania ha perso molto turismo negli ultimi anni) e che possono godere di protezione e aiuto, se ce ne fosse bisogno. In realtà la presenza di un poliziotto non viene garantita a tutti i gruppi. C’è un sorteggio a monte. E noi abbiamo avuto questa “fortuna”.
La mattina dopo, casualmente, ad Amman, assaggiamo il succo della canna da zucchero appena spremuto. Sinceramente si può bere di meglio! Ma l’importante è provare cose nuove! La prima tappa di oggi è il Monte Nebo, dove Mosè ammirò la Terra Promessa, quindi Madaba, città cristiana, con una chiesa ortodossa in cui vi è un bel mosaico antichissimo, rappresentante una mappa per i pellegrini che si recavano nei luoghi sacri attorno a Gerusalemme. Nel pomeriggio proseguiamo lungo la Strada dei Re verso il castello di Karak. Infine arriviamo al villaggio di Dana, dove la mattina seguente facciamo un trekking nella riserva omonima, con una guida baffuta, Khalid, che non riesce a perdere la sua pancetta nemmeno con il trekking, perché ha due mogli e va a mangiare da entrambe a pranzo e a cena. Durante il percorso incontriamo una roccia stratificata di innumerevoli tonalità. Sembra la tavolozza di un pittore che ha mischiato i colori. Khalid chiama a sé le donne del gruppo e ci riga il viso con questa terra. Sembriamo delle indiane!
A metà itinerario Khalid ci prepara un tè: accende il fuoco con dei ramoscelli e fa scaldare l’acqua in un grezzo bollitore. Tutta la Giordania usa questa pentola per il tè. Quello giordano è tè nero, aromatizzato con salvia, cardamomo e cannella. Molto molto zuccherato! Ma fa sempre piacere berlo.
L’ambiente è costituito da formazioni rocciose insolite, come tanti alti e larghi bitorzoli che si ergono sulla terra arida della valle e su cui ci si può arrampicare, non senza difficoltà.
Nel pomeriggio visitiamo il castello crociato di Shobak e poi Piccola Petra, un assaggio di ciò che ci aspetta il giorno dopo. Infine ci stabiliamo nell’albergo di Petra, il più bello di tutto il viaggio, a due passi dall’ingresso del famoso sito nabateo. Cena ottima in albergo e poi festa a sorpresa per uno di noi, Giovanni, che compie proprio oggi gli anni. La nostra coordinatrice, Alberta, è una donna molto preparata e attenta anche a questi particolari carini. Alberta vuole sempre che ottimizziamo i tempi! I nostri slogan del viaggio sono perciò: “yalla yalla” di Zu, che abbiamo subito assimilato anche per la musicalità e il ritmo della parola stessa, e “ottimizzare i tempi” di Alberta, che invece abbiamo fatto più fatica a fare nostro.
Il giorno dopo, Petra ci affascina dapprima con il Siq, il lungo e sinuoso corridoio, stretto tra alte pareti di arenaria. Questa spaccatura naturale, lunga 1200 metri, termina con un’ampia apertura davanti al Tesoro, il simbolo di Petra, la cui vista dal vivo è stata per me un sogno da innumerevoli anni. Cammelli, giordani in costume romano, polizia in divisa nabatea, un bar con tavolini, bambini insistenti che ti vogliono vendere qualcosa e che, pur non andando a scuola conoscono chissà quante lingue, animano questa piazza naturale, quasi senza badare al prezioso gioiello in cui vivono.
Ma la parte più sorprendente di Petra deve per me ancora venire. Raggiriamo a destra la roccia dentro cui il Tesoro è stato scavato; il paesaggio si apre. Proseguiamo verso le tombe reali, sostando a una bancarella dove si riempiono le bottiglie con le sabbie colorate, creando dei disegni, poi gustiamo un tè alla menta da qualcuno che Zu conosce bene e dove le donne del nostro gruppo, io per prima, si fanno mettere il khol, il kajal in polvere sugli occhi. Proseguendo la nostra visita, notiamo che la roccia arenaria, scavata per ricavare tombe e case, mostra tutte le sue sfumature interne. Sembrano quei disegni che facevo alla scuola media, curve colorate con i pennarelli, una accanto all’altra. Bianche e rosse, gialle, arancio, marroni, avorio. Uno spettacolo incredibile!
Saliamo alle tombe reali e poi discendiamo verso una chiesa con il pavimento a mosaico. Grazie a Zu entriamo nel sito di uno scavo dove troviamo un nostro compatriota come archeologo e poi passiamo davanti al tempio sulla via colonnata senza più colonne. Dopo il pranzo al sacco saliamo i novecento gradini che conducono al Monastero, resistendo alle insistenti proposte dei beduini di portarci su a dorso di mulo. Stoicamente, sotto il solito sole infernale, saliamo con coraggio fino alla nostra meta. E quando ci arriviamo, nemmeno la vediamo perché è alle nostre spalle. Sono contenta di stare bene. Non sento la fatica. Le gambe mi portano a meraviglia, sopporto il caldo. Sono felice perché mi sto godendo Petra.
Saliamo ancora più su, verso un punto panoramico, indicato come the best view in Jordan (in realtà ce sono un po’ di best view), dove troviamo un gattino affamato che mangia gli avanzi del nostro pranzo. I micetti in Giordania sono numerosi, piccoli di taglia e molto affettuosi. Ultima tappa del giorno è il Tesoro visto dall’alto. Si tratta di ridiscendere i novecento gradini, ripercorrere la valle, risalire alle tombe reali e poi ancora tanti e tanti gradini coloratissimi scavati nell’arenaria. Una scala reale! Il sentiero porta a una tenda beduina con vista a strapiombo sul Tesoro. Il beduino suona per noi uno strumento di legno a una corda, ricoperto con pelle di pecora, la rababa. È ormai tardi e dobbiamo rifare la discesa dei gradini, tornare al Tesoro, ripercorrere il Siq e gli ottocento metri che separano il Siq dall’ingresso del sito di Petra. Tornare all’hotel, farsi una doccia veloce, mangiare e rifare di nuovo tutto fino al Tesoro per assistere allo spettacolo di “Petra by night” che si rivelerà piuttosto deludente. Però le candeline sul percorso e davanti al Tesoro sono suggestive. Ma quanti chilometri abbiamo fatto oggi? Circa ventisette, dice il mio cellulare.
La mattina dopo si rifà per forza ancora tutta la parte introduttiva al sito: ingresso, ottocentro metri di sentiero assolato, milleduecento di Siq, Tesoro. Ormai il Siq non ci dà più nessuna emozione. Lo abbiamo visto in tutte le salse. In effetti, mi rendo conto che una conseguenza negativa del viaggiare è una sorta di assuefazione alla bellezza, tanto da non riuscire, viaggio dopo viaggio, a entusiasmarsi in modo soddisfacente alle meraviglie che si incontrano. Per fortuna non è sempre così. Petra mi ha davvero stregata!
Saliamo all’altare del sacrificio da cui si vede in lontananza la tomba di Aronne, una bianca chiesetta sulla cima di una montagna. Ridiscendiamo per un altro sentiero, passando davanti ad altre case e tombe scavate nella roccia arenaria coloratissima. Poi di corsa a farsi una doccia in hotel perché dobbiamo sloggiare entro mezzogiorno. Dopo il pranzo compro una kefiah, il copricapo delle arabe e gioco a fare la donna misteriosa mostrando solo gli occhi, ancora neri di khol.
Nel pomeriggio ci trasferiamo nel Wadi Rum (che si legge Uadi Ram). Wadi significa valle. All’ingresso ci accoglie la roccia chiamata “I sette pilastri della saggezza”, come l’aveva battezzata Lawrence d’Arabia. Lasciamo il pulmino per salire sulle scassatissime jeep dei beduini e inoltrarci sulle sabbie del deserto, da cui spuntano speroni rocciosi che appaiono come ricamati da colate di stalattiti. Incomincio a sentire l’anima del deserto. Prima di arrivare all’accampamento ci fermiamo al villaggio beduino con la sorgente di Lawrence d’Arabia, poi visitiamo un breve canyon dal nome che mi è impossibile ricordare e infine raggiungiamo il campo con le tende. È tutto bello e ordinato. I beduini, con la loro veste lunga e bianca, appaiono raffinati e puliti e ci preparano un tè sul fuoco al centro dell’accampamento. Attorno al fuoco ci sono dei divanetti. Che bello! Siamo lontano dal mondo, con questi abitanti del deserto che ci stanno preparando una cena tipica, cucinando pollo e verdure in un forno sotto la sabbia. Imperdibile il tramonto, da godersi solo dopo aver arrancato con fatica su una duna che porta a una comoda roccia di osservazione. Ma mica potevamo perderci il best wiev of sunset in Wadi Rum!
Dopo la cena, sotto il cielo stellato rischiarato dal primo quarto di luna, improvviso una serata astronomica per i miei compagni di viaggio: tutti attorno al fuoco ormai spento, a parlare di costellazioni, stelle, pianeti, galassie, meteore. La notte è quella del massimo delle Perseidi, le lacrime di San Lorenzo. Quanto piange, questa sera, il povero Lorenzo! La maggior parte di noi decide di rimanere attorno al fuoco a dormire e trascina fuori i materassi dalle tende. La luna scompare verso l’una di notte e il cielo muta il suo splendore, svelando luci prima invisibili, sotto una cascata di meteore. La Via Lattea attraversa il cielo da nord a sud, passando per il Cigno e io non riesco a dormire. La vedo spostarsi verso occidente, segno che il tempo scorre e io non posso chiudere gli occhi sotto le strisce lasciate dalle meteore. Non posso abbandonare lo spettacolo di un cielo così fitto di stelle. A nord est vedo sorgere Andromeda e la sua galassia è ben visibile a occhio nudo. Poi sorgono anche le Pleiadi e le Iadi. I cambiamenti del cielo durante la notte sono per me come le lancette di un orologio. So che è molto tardi ma non riesco a dormire anche perché una volpe si aggira per il campo. Zu ci ha detto che ruba le scarpe e noi le abbiamo nascoste sotto il materasso. A un certo punto l’animaletto si mostra, tentando di mangiarsi i biscotti che avevamo lasciato sul tavolino. Sono le tre e mezza. Decido di entrare nella tenda per poter dormire almeno un paio d’ore, prima di affrontare una breve camminata che in venti minuti ci porterà al best view of sunrise in Wadi Rum. Non dobbiamo perdere niente di questo viaggio! Tutto deve essere vissuto al massimo!
Dopo la colazione, il giro in jeep per il deserto. Ecco il famoso arco naturale sul quale saliamo per la foto di gruppo, poi un altro canyon che attraversiamo dall’inizio alla fine, dove raccolgo un po’ di sabbia per ricordo. Altro tè nel deserto. Seguono dei graffiti e infine una bellissima duna rossa da risalire e ridiscendere, correndo o rotolandosi. Io, con i miei sandaletti, comincio la salita perché so che è troppo divertente correre giù dalla duna, ma devo tornare quasi subito indietro perché mi sto bruciando i piedi nella sabbia infuocata. Non ce la faccio! Raccolgo anche qui un campione ricordo di sabbia.
La tappa in uno dei deserti che ho sempre sognato è ora terminata e ci dirigiamo ad Aqaba, sul Mar Rosso. Lungo la strada una foto a un cartello che indica il pericolo di attraversamento cammelli. Ad Aqaba trascorriamo un pomeriggio a 40 °C, su una spiaggia sassosa, con bagno in mare, avvistamento di qualche corallo e riccio di mare e di molte arabe con burkini, sia in mare che in piscina. Un giretto per la città e il trasferimento a nord, di nuovo a Madaba, questa volta lungo l’autostrada del deserto, sostando all’alba delle dieci per la cena in un ristorante di amici di Zu. Arriviamo a Madaba all’una e mezza di notte. Ma tanto l’alba a Madaba non ci interessa.
Ultimo giorno: il Mar Morto, un bacino idrico alimentato dal Giordano, che si sta paurosamente prosciugando per i prelievi d’acqua da questo fiume, necessari alle irrigazioni agricole. Il lago, il secondo più salato al mondo, si trova a quasi 400 metri sotto il livello del mare (il punto più basso sulla superficie terrestre) e sotto il solito sole infernale. Impossibile fare anche solo qualche passo senza i sandaletti o le ciabattine. Fare il bagno nel Mar Morto è troppo divertente: ti immergi camminando nelle acque calde come il brodo e lisce come l’olio, senza un accenno di minuscola onda. Appena alzi una gamba ti trovi in posizione orizzontale, con una bassa percentuale del tuo corpo sotto le acque. Ti accorgi che tentare di ritornare in piedi è di una difficoltà pazzesca. Quando esci hai la pelle liscia di sale, ti metti i fanghi ovunque e aspetti che asciughino, ma non lo fanno perché stai sudando troppo, così decidi di toglierteli lo stesso rientrando in acqua. Lunga doccia d’acqua dolce e poi si va a prendere un po’ di sole in piscina. Ma poco, perché bisogna ottimizzare i tempi. Dopo il pranzo a buffet, che avrei voluto poter fare più abbondante visto il ben di Dio offerto dal ristorante della Spa e compreso nel prezzo di accesso alla struttura balneare, c’è l’ultima faticaccia del viaggio: torrentismo. Si tratta di risalire una parte del Wadi Mujib, tra acque calde e impetuose a cui è difficile resistere per la corrente che generano, immersi a volte anche completamente. Non mancano salti rocciosi da affrontare in salita e in discesa, scivolando sulla roccia per sprofondare sott’acqua e riemergere con le orecchie tappate, con tanta fifa da parte mia. Nel tardo pomeriggio shopping di prodotti del Mar Morto da qualche parente di Zu, al quale ho lasciato la bellezza di 107 dinari (137 euro)!
Serata mitica in un ristorante di Madaba, non scelto da Zu che si è già congedato da noi, e conclusione in un altro ristorante con musica dal vivo, dove ci siamo intrufolati in una festa di compleanno con danze arabe. Danze… donne normali che ballavano… e ci siamo messi anche noi a ballare. I due musicisti, per l’occasione, hanno suonato “L’italiano” di Toto Cutugno e noi giù a cantare senza ritegno! Il proprietario, per ringraziarci di aver ravvivato la festa, a mezzanotte passata ci ha offerto da mangiare e un secondo giro di birra. E quando gli abbiamo detto che alle tre di notte dovevamo andare in aeroporto si è persino offerto di accompagnarci. Grazie, Giordania!
N.B. Il resoconto così stringato del viaggio fa parte dell’ottimizzazione e rende bene il ritmo tenuto!