Un racconto appositamente creato per la mostra Tandem. Sguardi e parole X donne e lavoro, tenutasi a Monza dal 30 marzo al 6 aprile 2014, all’Urban Center Binario 7, promossa dal giornale on line Il Dialogo di Monza e realizzata in collaborazione con il Comune di Monza.
La voce della segretaria risuonò maledettamente antipatica: «Il direttore ha bisogno che lei stasera si fermi fino alle otto».
«Oh no! Non ne posso più!» sbottò Michela.
«Anche oggi ti tocca», le giunse puntuale il commento di Giada, la nuova collega in servizio da circa un mese nello stesso ufficio.
Erano quasi le otto e Michela fremeva sulla scomoda sedia da impiegata. Le scartoffie impilate facevano bella mostra del suo alacre lavoro.
«Mi faccia venti fotocopie di questo», le ordinò il direttore senza neppure guardarla.
Michela afferrò il foglio che l’uomo aveva abbandonato sulla scrivania e si diresse con passo nervoso verso la fotocopiatrice. Alzò il coperchio, prese con la mano sinistra il documento che qualche smemorato aveva dimenticato e depose con la destra il foglio del direttore. Selezionò “20”, start e si piazzò davanti agli occhi il foglio lasciato da chissà chi. Ogni suo movimento si placò.
«Sono pronte le copie?» irruppe di nuovo il direttore.
Michela gli piantò in viso due occhi che non lo vedevano, mentre la fotocopiatrice cigolava gli ultimi fogli nel vassoio. Corse alla scrivania, accartocciò il foglio, afferrò borsa e cappotto e si precipitò fuori dall’ufficio, inseguita dalle minacce di licenziamento del direttore.
Michela correva sulle strade della sua piccola città, come tirata da una lunghissima fune invisibile, finché giunse davanti a un alto cancello chiuso. Al di là di esso, fasci frastagliati di luci bianche e azzurre si agitavano verso l’alto. Toccò il cancello e un battente cedette sotto la spinta della sua mano. Avanzò sul sentiero sterrato, raggirò una cortina di arbusti sempreverdi e si dispose davanti alle luci. Erano tre, conficcate nel terreno, racchiuse entro una superficie non più grande di un tombino. Giada era lì, in piedi, al suo fianco: «L’esperimento è terminato. Siamo pronte per la disconnessione».
Michela si posizionò sopra le luci e tutto il creato svanì.
Sembrava vuoto lo “spazio” attorno a loro. Invece conteneva molte presenze.
«Oh, finalmente a casa! Potevi riportarmi indietro prima!» comunicò bonariamente Michela a Giada, senza proferire suono.
«Non ti ricordi? Ordini tuoi: non prima di un miliardo centonovantotto milioni trecentosessantottomila e centosettantasei secondi. Ovviamente si intendono riferiti al tempo che abbiamo appositamente creato per quel mondo. Sei tu che hai ritardato di tremiladuecento secondi a leggere il codice di ritorno che ti ho lasciato», osservò Giada. «Allora, lo facciamo questo universo?»
«L’universo sì: è meraviglioso! È l’essere umano che non funziona. Hai visto come si è evoluto il mondo a partire dal nostro progetto iniziale? Troppe sofferenze, troppe ingiustizie… Per poter sopravvivere le persone devono trascorrere troppo tempo a eseguire mansioni che le allontanano dalla propria realizzazione.»
«Significa che bisogna rivedere il progetto di essere umano?»
«Sì», affermò Michela. «Potremmo anche togliere la dimensione temporale e aggiungerne una spaziale», ipotizzò. «C’era una tale frenesia…»
«Così forse la vita sarebbe semplificata senza l’assillo del tempo», concordò Giada.
«Bene. Allora mettiamoci al lavoro!»